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CONCLUSIONE - di Mons. Enrico Masseroni

 

In questo Convegno siamo stati sollecitati ad aprire la finestra del nostro mondo assuefatto sull’orizzonte stimolante di “Dio e l’Europa”. Ma non ci nascondiamo un rischio: che è quello di pensare l’orizzonte che si sta davanti come distante da noi, spettatori preoccupati di giudicare senza lasciarci interrogare o coinvolgere.

O forse ci viene persino da pensare che sia presuntuoso alzare lo sguardo su “Dio e l’Europa” dal nostro piccolo osservatorio di provincia. Insomma una domanda inquietante ma pertinente ci tocca profondamente alla chiusura di questo convegno: “Qual è la ricaduta del tema sul nostro orizzonte, sulle strade battute della pastorale delle nostre comunità cristiane?”, domanda non certamente elusa nei promotori di questo incontro.

Il pensare a “Dio e l’Europa” non significa oggettivare e distanziare: il vento che attraversa l’Europa attraversa anche le nostre comunità. Ci siamo dentro, ne siamo coinvolti, non è possibile tirarsi fuori. Non siamo spettatori di una storia altra da noi. Forse possiamo ben dire che le fatiche dell’Europa di fronte alla trascendenza sono le nostre fatiche; le fatiche di andare verso il futuro sospinte dalla speranza sono le nostre fatiche.

 

1. Gli organizzatori di questa “Tavola di riflessione” nella loro didascalia introduttiva all’invito hanno parlato del “senso di Dio” che ha permeato la storia europea. Io vorrei riprendere questo discorso per leggere le “orme” di Dio nella storia d’Europa, e poi le fatiche dei nostri passi nella svolta, sino ai possibili (e forse urgenti) sentieri che vanno verso il futuro. E’ questo il piccolo percorso conclusivo: le orme, le fatiche, i sentieri.

Anzitutto le orme di Dio.

Non è difficile percorrere i segni della tradizione culturale cristiana nel vecchio Continente: è sufficiente aprire gli atlanti della storia artistica, con il paesaggio dell’umile romanico, con l’arditezza delle grandi cattedrali gotiche, con la ricchezza dell’oggettistica museale e con la ricca pittura religiosa sino ai nostri giorni; tutto questo certifica una presenza di fede cristiana in ogni stagione della storia europea.

Inoltrandoci nella vicenda di questa terra, magnifica e insanguinata, dell’immenso Continente, possiamo trovare altri reperti meno visibili della tradizione cristiana, ma non meno fecondi: la diffusione di una cultura universitaria attraverso le reti dei grandi atenei di fondazione ecclesiastica, l’affermazione progressiva di un diritto a misura di uomo, la conservazione dei patrimoni culturali giunti alla tradizione cristiana per necessità storica, nonché la bonifica delle terre e la quasi utopia della bonifica dei costumi.

Meno visibili sono piuttosto gli echi che la tradizione cristiana ha riverberato sull’Europa. Meno visibili perché costitutivi piuttosto di quella realtà “altra” che chiamiamo Chiesa, ma che, incarnata in Europa, ha trasmesso quasi impercettibilmente alla cultura i suoi valori.

Un primo tratto di questi “echi” è il senso dell’universalità: quella che alcuni storici indicano come “Europa aperta”. Essa è attestata non solo dalle avventure esplorative, missionarie e scientifiche, per le quali si può sempre parlare, anche nei momenti bui, appunto di Europa aperta. Impreziosita dai riferimenti positivi del localismo così vario, essa reca il segno di una “cattolicità laica”, quando si apre alle alleanze, alle solidarietà, agli scambi e alle comunicazioni; quando integra a sé altri popoli in cui riconosce anche solo un’ affinità elementare e imprescindibile: quella della comune umanità. Forse a questo senso dell’universalità è come sotteso e implicito il senso della fraternità cristiana che cerca di farsi politica solidale.

Un altro tratto, non immediatamente leggibile nella tradizione cristiana dell’Europa è la tensione all’unità, riscontrabile pur nella sue valenze ambigue, nelle forme ereditate dalla romanità imperiale, ma anche nella forma nuova e alta della predicazione evangelica tesa a fare di tutti i popoli in Cristo un regno per Dio. Certo i conflitti e le ricomposizioni, le lotte e le paci, gli scontri religiosi e i rimorsi conseguenti, i sensi di colpa segreti e le richieste pubbliche di perdono possono attestare con quale fatica l’Europa abbia vissuto la tensione all’unità. In questo senso, l’impegno di chi ha operato per la fondazione di una Europa più solidale economicamente e politicamente, capace di riconoscersi nella cultura della stima reciproca e del dialogo, è degno di elogio e di consenso.

Un terzo elemento traibile dalla “forma ecclesiae”, e cioè dal suo modo di essere nella storia, è ciò che il linguaggio cristiano chiama santità. La chiesa è santa non in virtù delle sue opere, ma perché Dio la rende continuamente tale con il suo Spirito, anche quando il “personale della Chiesa” non lo riceve in tutta la sua pienezza. Sul piano della storia europea è possibile riscontrare tale santità nella sequenza infinita di persone note e sconosciute e in tutte quelle “opere sante” che hanno inciso nel contesto vivo della società europea negli ambiti della docenza, della promozione umana, sino alle forme più impegnative della condivisione.

Il riverbero laico di questa nota ecclesiale è il termine virtuosità, intesa come competenza, serietà, senso della responsabilità. Il contesto europeo ne è ricco ed enumera grandi personalità che hanno cercato e promosso un vero umanesimo: nel campo filosofico, giuridico, letterario e negli ambiti della educazione, dell’arte e della scienza. E tutto questo per dotare l’uomo europeo di una virtù sempre nuova e sempre ferita, sempre agognata e sovente sconfitta: la libertà, quella che accresce l’uomo che non ha ancora potuto dispiegare appieno se stesso in dignità e cultura.

 

2. Oltre a questo excursus sulle orme di Dio nella storia, un secondo sguardo, che ci interpella da vicino, è all’ora presente della vicenda d’Europa e del nostro Paese; momento da tutti riconosciuto come stagione del cambiamento, con i passi faticosi delle nostre comunità cristiane.

Il documento pastorale dei Vescovi per questo decennio per la Chiesa italiana è salutarmente puntuale: “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia”. Allo stesso modo fanno eco altri episcopati del vecchio continente.

Il problema nodale della comunità credente è proprio quello di coniugare il “Dio rivelato da Gesù Cristo con l’Europa”, mentre stiamo forse rapidamente consumando il dramma evocato da Paolo VI nell’esortazione post-sinodale “Evangelii nuntiandi”: “La rottura tra vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca” (1975).

E’ da questa lucida consapevolezza che riparte, non senza affanni la nuova fase storica d’Europa della nuova evangelizzazione per dire Gesù Cristo all’uomo di questo tempo.

Ma non possiamo misconoscere che l’epoca presente, immersa nel solleone del secolarismo, è tempo di grandi fatiche per tutte le nostre comunità.

Anzitutto la fatica del discernere, del capire la complessità culturale; le attese e le non attese del mondo in cui viviamo. Il giudizio evangelico sui tempi che corrono da sguardo di élites ha bisogno di diventare sguardo del popolo cristiano.

La fatica si acuisce quando si osserva una sorta di schizofrenia tra il fine vastamente entrato nella coscienza dei credenti, qual è l’urgenza di dire Dio in un mondo che è già cambiato, e i mezzi più idonei ed efficaci per la missione. Da una parte infatti si intuisce l’inattualità delle vie tradizionali e dall’altra si coglie l’affanno della profezia nell’aprire nuovi sentieri.

Non meno grave è la fatica a incoraggiare e costruire il nuovo volto di comunità cristiana in cui si affacciano i laici con l’ancora timida coscienza della loro vocazione-missione nel mondo: della cultura, dell’ economia, della politica, soprattutto di fronte alle nuove sfide, dentro gli scenari inediti della biotecnologia e della globalizzazione.

Ma forse l’affanno più grave è provocato dal ruolo di minoranza “numerica e culturale” in cui viene a trovarsi la comunità dei credenti; fenomeno non certo inedito perché è una costante della storia, ma nuovo per la coscienza popolare, spiazzata di fronte alle domande che toccano il senso stesso della vita e dei valori non più accolti pacificamente e universalmente.

Senza dimenticare che le fatiche, come affanno nell’attuale trapasso storico, non mancano di provocare la crisi della speranza, dentro e fuori la comunità credente. Il cardinal Dannels presente a Vercelli in un precedente convegno, ricordava per i giovani che la virtù più in crisi che affligge l’occidente europeo è la speranza, la cui assenza viene vissuta in modo preoccupante dalle nuove generazioni, esposte al fatalismo storico, al culto del presente e al disimpegno di fronte al futuro.

 

3. Ed infine il binomio “Dio e l’Europa” non può non suggerire alcune coordinate irrinunciabili nella nuova evangelizzazione, in cui l’essenzialità sia davvero stile evangelico e segno contestativo di una cultura dell’opulenza, terreno fertile di molte idolatrie.

E così passiamo dalle orme di Dio nella storia e dai passi faticosi delle nostre comunità nel cambiamento, ai sentieri possibili e urgenti.

Fondamentale sentiero: dare il primato alla parola di Dio. E’ questa, la Parola, il viatico per la comunità cristiana chiamata a vivere nell’oggi della storia non solo la sua condizione di esodo, ma di esilio culturale.

 

Alla scuola della Parola la comunità-segno del risorto diventa capace di rendere visibile la “differenza cristiana” nella direzione della santità, che Giovanni Paolo II definisce “misura alta della vita cristiana”. Solo essa può diventare un segno idoneo a interrogare l’uomo sul senso della vita. Come nei primi secoli fu il martirio a “scandalizzare”e interrogare i pagani davanti ai credenti in Cristo, come a partire dal IV secolo di Eusebio fu la carità solidale verso gli ultimi e i disprezzati della terra, così oggi è la santità dei credenti in Cristo a interrogare l’uomo povero di senso.

La differenza cristiana va nella direzione della “comunione ecumenica”, dell’unità tra i discepoli del Signore; nonchè di una coralità accogliente dei doni, delle esperienze, delle culture delle diverse generazioni e soprattutto dei nuovi poveri che pure bussano alle porte del vecchio Continente. Pertanto la comunità dei credenti in Cristo è promotrice di pace e di pacificazione, è testimone di una tolleranza dialogica e di un rispetto accogliente delle quattro differenze: quella ecumenica, quella interreligiosa, quella interetnica e intergenerazionale.

Ma una comunità consapevole di comunicare il Dio di Gesù Cristo nell’Europa di questo tempo non può non attrezzarsi di una visione teologale della vita e della storia. Per questo è necessario il discernimento, evitando ogni semplificazione manichea e rispettando la complessità culturale; il discernimento deve diventare sguardo itinerante nella storia del popolo credente, riconciliato con l’oggi di Dio, senza nostalgismo né fatalismo storico, per liberare la “libertà della speranza”, senza deleghe o manipolazioni politiche.

Il discernimento incoraggia l’accoglimento della speranza nella sua originalità cristiana; non solo come categoria antropologica della storia protesa verso il futuro come nella visione blockiana, ma come esperienza del Cristo Risorto, il quale ha già vissuto per ogni uomo il percorso della speranza nell’evento di morte e di risurrezione, chiave ermeneutica della speranza attiva e paziente del cristiano.

 

4. Anche il Convegno su “Dio e l’Europa” è stato un prezioso contributo al discernimento e alla speranza. E mi permetto di formulare un augurio: che questa “tavola di riflessione”, una sorta di “biennale eusebiana” su “Fede e storia”, così intensamente partecipata, possa continuare a rendere il suo stimolante servizio all’intelligenza della fede e dei segni dei tempi.

Per questo credo di interpretare i sentimenti di tutti i promotori e organizzatori nell’esprimere un grazie sincero a tutti i partecipanti, numerosamente presenti in questo teatro oltre ogni più ottimistica previsione; sono vivamente grato ai relatori: al carissimo priore della fraternità monastica di Bose, Enzo Bianchi, al Prof. Jurgen Moltmann, a Mons. Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo, al giornalista Dott. Gad Lerner, al Prof. Claudio Ciancio, dell’Università degli studi del Piemonte orientale.

Ma ancora una volta questa straordinaria convocazione vercellese che esprime un’immagine viva della città eusebiana, fondatamente orgogliosa della sua storia e della sua cultura, non può farci dimenticare il grave disagio in cui si trova il nostro terr itorio di fronte all’incombente crisi occupazionale, motivo di grande sofferenza per molte famiglie.

E allargando l’orizzonte, ricordo la recente celebrazione della giornata della memoria, che tutti chiama ad essere vigili per non mortificare il cammino della speranza dell’umanità.

Naturalmente sono particolarmente riconoscente al MEIC soprattutto nella persona del suo presidente Maurizio Ambrosini e del suo assistente Don Cesare Massa.

Le intense e penetranti riflessioni di stamane ci hanno aiutato a guardare dentro i percorsi di un’Europa, in cui, appunto “tra rimorsi e speranze” Dio è la speranza del nostro futuro. Anche la proposta del MEIC fa parte di un progetto di Chiesa che vuole pensare a se stessa come amica dell’uomo e per questo intende aprire sentieri, accanto ad altri, per dire la speranza di Gesù morto e risorto agli uomini e alle donne di questo tempo.

 
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