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Anche Nel Deserto Aprirò Una Strada - Mons. Cesare Massa

 

Via S. Michele 12
Marzo 2006

 “ANCHE  NEL DESERTO APRIRO’ UNA STRADA”
                                                   (Is 43, 19)

 

Anche noi come l’antico Israele, siamo portati nel tempo di Quaresima, entro quel “luogo spaventoso” (Dt 1,19) e, nello stesso tempo educativo, che chiamiamo deserto. “Fare deserto” è diventata una pratica abbastanza usuale anche nell’ambito delle comunità monastiche, come ricerca di una solitudine ulteriore altrimenti difficile da trovare anche in un ambito così garantito. Anche la pubblicistica laica più avvertita insegue, come un bisogno di fuga dal rumore, dalla folla e dagli affanni della civiltà consumistica, il deserto quale luogo di un riposo dello spirito, quasi un ritrovamento di se stessi. Anche le agenzie turistiche hanno trovato per loro conto “una strada nel deserto”al fine di aprire alle persone nuove conoscenze ed esperienze, offrire nuove possibilità di incontro e incentivando il proprio e l’altrui lavoro, commerci e guadagni.

Noi, pur apprezzando questi motivi, vogliamo lasciarci portare  nel deserto , come Gesù, dallo Spirito. Vogliamo cioè leggere, sotto il dettato evangelico delle sue parole, un significato diverso, sacramentale, del deserto, come segno di una realtà più profonda, sottesa alle parole e alle narrazione dei fatti.

Il deserto è il luogo della peregrinazione d’Israele nei quaranta anni della sua uscita dalla terra di schiavitù. Un luogo dove non è assicurata l’acqua, il cibo, la strada, la durata del cammino, la qualità dell’approdo. Dove è facile la tentazione della nostalgia dell’Egitto dove con la schiavitù era assicurata tuttavia la “quantità” del vivere. Si può capire così quale sia il disegno del Signore su questa massa di sbandati: condurli “fuori”, in un luogo dove sia udibile solamente la sua voce per farli partecipi di una “qualità” diversa e più alta di vita: diventare un popolo che gli appartenga. E questo, attraverso la prova di una fede pura.

Certo, mancherà il cibo, ma Dio manderà un nutrimento speciale, nuovo e sconosciuto: la manna. Mancherà l’acqua, ma Dio farà scaturire dalla rupe, sotto la verga di Mosé, l’acqua viva per la sete del suo popolo. Anche la salute troverà attentati e incidenti, ma Dio provvederà alla salvezza con la contemplazione del misterioso serpente di bronzo. Il popolo si creerà un Dio vicino con la costruzione di un vitello d’oro, ma Dio per l’intercessione di Mosé, di fronte al peccato di idolatria, proclamerà il perdono e la misericordia. Così il deserto diventa anche il luogo della manifestazione della gloria di Dio.

Di fronte alle esigenze di Dio rivelate a Mosé sul Sinai con le dieci sante parole, il popolo accetta l’alleanza, ma poi dimentica, sminuisce l’impegno, indurisce il cuore preferendo la facilità dell’istintuale e del convenzionale. Anche dopo la lezione del deserto, la sua etica si allinea ai comportamenti cananei e Il suo culto perderà il carattere essenziale e sobrio del deserto (Am 5,25) per diventare formalistico e vuoto. Il deserto manifesta in modo eloquente la qualità del cuore umano. La qualità del nostro cuore.

Israele, per bocca dei profeti, in contrasto col tempo presente nella terra di Canaan, farà memoria del tempo del deserto e lo ricorderà come un tempo idilliaco (Os. 2, 16), come la stagione del fidanzamento con Dio. Dove è sempre possibile ritornare per ritrovare la gioia e l’innocenza di quei giorni. Là è sempre possibile sentire la voce di Dio che parla al cuore e rinnovare la giovinezza degli inizi. Il deserto ritrovato è il luogo del ritrovamento dell’amore di Dio per l’uomo.

Questi quattro significati del deserto, come ci vengono svelati nel tempo di quaresima possono diventare non solo motivi di meditazione, ma anche propositi e opere: la ricerca di una fede pura implica un lavoro di purificazione dei motivi per cui ci diciamo cristiani e un impegno di maggiore evidenza interiore della nostra vocazione cristiana.

Così il deserto come manifestazione della gloria di Dio può condurci all’indagine orante e alla memoria riconoscente dei benefici di Dio nella nostra vita: del cibo spirituale che ci è venuto da lui, dell’acqua della sua grazia, del perdono sulle nostre infedeltà o idolatrie. E poi, la qualità del nostro cuore: un esame di coscienza e l’occasione di un proposito in vista di una riconciliazione anche sacramentale. E se abbiamo smarrito la strada entro la babele delle strade della moderna città-mercato, il deserto quaresimale diventa il momento di un ritorno agli inizi: nunc coepi. Adesso ricomincio:

Anche Gesù è “portato dallo Spirito nel deserto” e là proverà le tentazioni dell’uomo di ogni tempo, come furono dei nostri progenitori: l’approriazione del  bello, l’essere come Dio, il potere di decidere in autonomia rispetto a Lui circa il bene e il male. Anche Gesù proverà le tentazioni dell’esodo: il cibo attraverso l’uso magico della Parola di Dio, la sicurezza attraverso l’idolatria del potere mondano, il miraggio dello spettacolare usato a fini religiosi.

La Chiesa, che “vive nascosta nel deserto fino al ritorno di Cristo” (Ap 12,6) invita i suoi fedeli a vivere il tempo di Quaresima come in un deserto domestico. E’ questo che ci viene detto nella pagina evangelica di Matteo nella liturgia del mercoledì delle Ceneri. “Quando preghi, chiudi la porta.” (Mt 6,6) C’è una qualità forte nella preghiera dell’assemblea cristiana poiché essa in questo modo è collocata nella grande ed efficace preghiera di Cristo, il Figlio sempre beneamato del Padre, l’unico e vero Sacerdote della nuova ed eterna alleanza. Ma c’è una qualità diversa e non meno forte nella preghiera in solitudine e nel nascondimento: quella dell’intimità col Padre cui ci inoltra il Figlio quando lo imitiamo seguendo il suo “disparte” (Mc 6,31). “Quando digiuni, lavati” (ivi) Il digiuno é l’esperienza di una mancanza. Possiamo privarci di quanto serve al vivere, una bevanda, un pasto; o di quanto concerne il nostro bene-essere quotidiano, un viaggio, la tv, uno spettacolo. In questa scelta abbiamo ancora l’opportunità proprietaria di essere dei protagonisti e degli inventori delle nostre “penitenze”. Ma c’è un digiuno nascosto che non dipende da noi (e anzi è contro di noi) ed è l’ esperienza delle nostre diminuzioni vitali, delle nostre pene più o meno pesanti, delle nostre insufficienze spirituali e umane quando queste ci ricordano la nostra mediocrità. Tenere nascosti questi “digiuni” è esercizio severo, poiché sentiamo anche il bisogno di farci consolare, e magari di farci compiangere. Collocare il nostro digiuno con il digiuno di coloro che come noi sono nelle difficoltà del vivere, questo può essere la vera consolazione da portare e da ricevere. Assumere così la solitudine dei poveri, dei profeti, degli abbandonati è accogliere la solitudine stessa di Gesù e così entrare nel suo stesso digiuno dei quaranta giorni e con lui godere  del “ritrovato paradiso” (Mc 1,12). “Quando fai elemosina, non si sappia.”(ivi) Anche il dono di qualcosa che ci appartiene è particolarmente significativo poiché in effetti si tratta sempre di una certa espropriazione. E questa reca con sé un che di sacrificale. Ma c’è una spossessione che non opera all’esterno ed è difficile quantificarla e anche il riconoscerla esige sforzo di attenzione. E’ il dispendio di sé per la crescita dei figli, per la riuscita di un lavoro ben fatto, per l’impegno a favore di chi ha bisogno di noi, per l’esercizio di una responsabilità dovuta.

Questo invito al deserto (e per noi al deserto domestico) sembra indicare un impegno solo individuale. Certo impegna tutti singolarmente. Ma anche la Chiesa nella sua totalità: nel deserto del tempo presente essa è chiamata al suo essenziale ministero, quasi incurante delle sue afflizioni storiche: quello della lode che viene dalle profondità della sua fede e dalla gratuità della sua adorante fiducia. Così è chiamata ad un digiuno nascosto soffrendo quanto le manca, in atto, per essere la sposa fedele senza macchia e senza ruga. E poi ad una elemosina che è il dispendio totale di sé per il mondo, poiché per questo è stata fondata: continuare l’opera del Cristo “sanando e facendo del bene”. Dunque Lui è la strada aperta nel deserto. A noi il dono di percorrerla con umile determinazione.

 
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