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Ti Condurrò Sul Mio Santo Monte - Mons. Cesare Massa

 

Via S. Michele 12
Marzo 2005

    “TI CONDURRO’ SUL MIO SANTO MONTE”
                                                    (Sap 56, 7)

 

Il paese di Gesù non appare così montuoso come risultano esserlo altri dai nostri atlanti geografici, eppure la Bibbia è piena di riferimenti alle montagne: l’Antico cita i monti di Gelboe (2Sam 1,6), i monti di Basan (Sal 68, 16), il monte Carmelo (1Re,14, 42). E fra tutti spicca il Monte Sinai: il luogo dove Dio ha parlato con il suo amico Mosé” faccia a faccia.” (Deut  34, 10). E l’Oreb, il monte dove Dio ha parlato al profeta Elia “nella brezza di un vento leggero” (   1Re 19, 12) E nel Nuovo: il monte delle tentazioni o quello delle beatitudini, il monte Tabor o della Trasfigurazione o il monte Calvario o della Defigurazione, o il monte “che Gesù aveva fissato” per la sua dipartita da questa terra (Mt 28,16).

I monti, per la sensibilità di Israele, rappresentano la linea di confine della terra e di tutto ciò che le appartiene, al di là della quale c’è l’inesplorato di Dio. Dunque è sul quel confine che occorre andare per un “vedere” più alto, più vasto e più profondo entro i grandi spazi divini del cosmo e in quelli non meno grandi e non meno divini del proprio cuore. Anzi, là occorre andare per “adorare” come dice la donna samaritana a Gesù presso il pozzo di Sicar: “I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte” (Gv 4,20) e sui monti sono stati costruiti i santuari del culto israelitico, tra cui il monte della elezione divina: il monte Sion, “altura stupenda che è la gloria di tutta la terra” (Sal 48,3).

Israele ha guardato ai monti col fascino delle “altezze” poiché solo lì l’Altissimo doveva e poteva trovare dimora. Per questo il fedele israelita dice: “Alzo gli occhi verso i monti (Sal 121, 1). Amati da Dio, anche i monti devono lodare il Signore (Sal 148,9), benedirlo (Dn 3,75) e persino a lui “gridare di gioia” (Is 49,13). Le sue divine qualità sono come i monti: la sua giustizia “è come i monti più alti” (Sal 36,7), la freschezza della sua forza “dalle alte dimore scende a irrigare i monti” (Sal 194,13), la luce della verità che  irradia dalla santa montagna é guida che consente di salire (Sal 43, 3) a quanti hanno avvertito nel cuore la domanda infuocata: “Chi salirà la montagna del Signore? (Sal 24,3)

Anche Dio si piega alla metafora dei monti. Essi diventano così i luoghi del suo alto beneplacito; rivolto al Sinai dice a Mosé: “Servirete Dio su questo monte” (Es 3,12); e rivolto al monte di Gerusalemme dice del suo Messia: “Io l’ho costituito mio sovrano sul Sion, mio santo monte” (Sal 2,6). Anzi, lì anche il suo popolo troverà la propria consistenza spirituale: “Tu pianti il tuo popolo sul monte della tua eredità” (Es 15,17) e il profeta trova lì il luogo delle sue visioni: “Io ti posi sul monte santo” (Ez 23, 14). E lì Dio darà appuntamento a tutti i popoli per il banchetto delle sue nozze con l’umanità: “Preparerà il Signore su questo monte un banchetto” sotto il segno dell’abbondanza, dell’integrità e della felicità (Is 25,6).

“I monti circondano Gerusalemme” (Sal 125,2) ma la misura della loro distanza non è indicata. Tutti i monti gli appartengono: alla sua parola possono scuotersi di spavento (Sir 16,19) oppure sussultare al suo apparire (Sir 43,16) o saltellare come arieti (Sal 114,4). E tuttavia, può eleggerne alcuni come momenti della sua alta rivelazione..

Così il monte di Abramo: la storia di questo patriarca parte da lontano, da Ur dei Caldei, la regione dei due fiumi, inizia con uno strappo dalle sue radici patrie, dalle sue fortune sedentarie e si sviluppa lungo strade sconosciute obbedendo solo alla “Voce” che lo incita verso l’ignoto e solo alla fede a questa voce esigente che lo fa discepolo dell’abbandono (Gen 22,2). Ma un giorno, quando Dio gli ha già dato il figlio promesso, la “Voce” gli indicherà un monte, il Moria, dove questo figlio sarà offerto a Dio in sacrificio, luogo dove Abramo conoscerà l’assolutezza e l’umanità di Dio e Dio conoscerà la qualità della fede di Abramo.

Così il monte di Mosé: la storia di questo profeta parte da lontano, dalla corte del faraone d’Egitto. Anche qui. inizia con uno strappo alle agiatezze di un mondo potente e ricco, cresce nell’esperienza di uno sfruttamento e di una violenza, e poi nell’incontro sorprendente con una Voce che gli parla da un roveto che arde inesauribile nel deserto, nell’affidamento di un ministero di guida per un popolo che è non-popolo. La scuola, lunga quaranta anni entro lo scenario del deserto, avrà come alta cattedra il monte di Dio, il Sinai.

Così il monte di Elia: l’inizio della sua storia è come una apparizione improvvisa e la sua profezia è tutta in un vaticinio:”Elia, il Tisbita, uno degli abitanti di Galaad, disse ad Acab: “Per la vita del Signore, Dio d’Israele alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo dirò io” (1Re 17,1). Storia che si svolge breve tra prodigi grandiosi e sfide drammatiche, tra altissimi ardori e propositi di morte. Infine, Dio, dopo averlo rifocillato, gli darà appuntamento all’Oreb, “il monte di Dio” (1Re 19,8), luogo dell’incontro con Lui nella brezza leggera e spazio della nuova missione  alle settemila persone che Dio si è risparmiato, “quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal” (1Re 19,18).

Mosé ed Elia: non sarà un caso che essi siano lì con  Gesù sul monte della Trasfigurazione, uno alla sua destra, l’altro alla sua sinistra, tutti e due accoliti della santità della Parola della legge data a Mosé e della santità del Silenzio del mistero di Dio rivelato ad Elia. E Gesù, al centro, come   compimento di tutto: legge e profeti, parola e silenzio, rivelazione e mistero.

 L’evangelista Luca dice che “parlavano della sua dipartita che sarebbe avvenuta in Gerusalemme” (Lc 9,30). Mosé ha conosciuto la morte, dunque poteva parlarne (anche se sussiste il mistero circa il luogo del suo sepolcro, quasi indice di una “assenza sospesa” : “nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba” Deut 34,6). Elia fu rapito in un carro di fuoco, “ nel turbine verso il cielo” (2Re 2, 11) e non lo si vide più.  La pietà israelitica lo pensa così, come “sospeso sul tempo”, assente agli occhi ma presente al cuore di una storia che lo reclama.

Sulla “santa montagna” Gesù porta con sé i tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni. Essi saranno “testimoni oculari della sua grandezza”, quando ricevette onore e gloria da Dio Padre e dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto” (2Pt 1,18).  I discepoli, dopo il primo annuncio della Passione, hanno bisogno di questa visione di gloria che li confermi nella fede in questo Dio fatto uomo, mentre sono sulla strada che li porterà a vedere solo un Uomo abbandonato anche da Dio. (“Padre, perché mi hai abbandonato?”Mc 15, 34, citando il salmo 22,2). Hanno bisogno di vedere una luce oltre la morte, il “destino di gloria” che è stato promesso a chi cammina sulle orme così umane di Gesù. Anche noi ne abbiamo bisogno: ed è questo il motivo per cui, a metà quaresima, la liturgia della Chiesa ogni anno, citando la pagina della trasfigurazione, ci guida alla contemplazione di Gesù sulla Croce e poi nella sua gloria, alla speranza della nostra e alla meravigliosa immagine di tutto, quando questo tutto, liberato dalle ombre e dai limiti, sarà “pieno di Dio”.

Tuttavia, i discepoli non capiranno granché. Il mondo di Dio è così grande! Vorrebbero star lì per celebrare nella gioia con Cristo, Mosé ed Elia la festa dei tabernacoli, tanto è alta e felice la visione che si propone ai loro occhi. Tuttavia, alla meraviglia si accompagna lo spavento e il timore, come sempre quando qualcosa di grande e di ignoto ci sorprende e ci afferra. Ma quando, “dopo che il Figlio dell’uomo sarà risuscitato dai morti” (Mc 9,9), ne parleranno, avranno, non solo l’intelligenza delle loro emozioni, ma anche la convinzione del messaggio di fede loro trasmesso da Gesù: “la sua potenza divina ci ha fatto dono dei beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste  per loro mezzo partecipi della natura divina” (2Pt 1,4).

Sulla strada di Pasqua, di fronte a questo annuncio strepitoso, di “diventare partecipi della natura divina”, non sarà cosa da poco lasciare che si risveglino in noi i sentimenti della meraviglia, del timore e persino dello spavento. Entrare nei perimetri di Dio è affare serio. Lo sa Mosé, che è invitato a togliere i sandali e velarsi il capo prostrandosi di fronte al roveto che arde nel deserto. Lo sa Elia, che è invitato a uscire dalla grotta e dalle sue paure per adorare Dio nel soffio degli alti silenzi della montagna. Dobbiamo saperlo anche noi, quando, invitati “sulla santa montagna“, entriamo nello spirito di preghiera, adorando, non qui o là, sul monte Garizim o su quello di Gerusalemme, ma al cospetto dell’Unico capace di rendere la vera adorazione al Padre in spirito e verità, che è il Cristo Signore.

Entriamo anche noi nei perimetri di Dio con la preghiera che ci viene insegnata da questa pagina della Trasfigurazione . L’ammirazione della santità Dio e quella che ha profusa nella gloria di tutte le cose, lo stupore e  il timore della sua grandezza, il senso della nostra piccolezza siano l’espressione umile e vera del nostro amore. E il cuore della nostra adorazione.

 
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